La Luce e il Cinema

La luce è la base del principio fotografico e quindi del cinema tanto che un tempo i direttori della fotografia erano chiamati “direttori delle luci” (oggi si privilegia dire cinematographer). Lo studio della luce nel cinema è fondamentale per i direttori della fotografia, sia di quella naturale sia di quella artificiale. Controllare la luce, le sue dimensioni e colori è ciò che rende un film migliore rispetto ad un altro con l’aggiunta del metodo del regista e di ciò che vuole esprimere nel cinema la luce rappresenta l’elemento primo e indispensabile per produrre immagini. Il cinema non è altro che una serie di immagini (fotografie) messe in movimento, e analizzando il termine fotografia, notiamo che ha origine da due parole greche, foto (phos) e grafia (graphía).
infatti, si potrà decidere di illuminare frontalmente il soggetto, che risulterà sicuramente schiacciato ma anche in rilievo rispetto al fondale, oppure lo si potrà illuminare lateralmente per dare l’idea dello spazio. Il controluce, cioè l’illuminazione da dietro, è molto usata per creare effetti irreali, mentre la luce dal basso è quella utilizzata per distorcere l’immagine e i tratti facciali dei protagonisti. Infine, la luce dall’alto è quella alla quale siamo maggiormente abituati, ma viene usata come unica luce in casi rari, in quanto può creare ombre che possono rovinare la scena di un film.

Oltre a ciò che vuole esprimere nel cinema, la luce rappresenta l’elemento primo e indispensabile per produrre immagini.
Non c’è bisogno di particolari accadimenti biografici per scoprire la centralità della luce nel lavoro dei cineasti. Qualsiasi regista avvertito sa che il suo lavoro ha nella luce uno dei principali dati materiali e uno dei più alti valori simbolici. Per Steven Spielberg la luce corrisponde sempre al momento della verità di un incontro decisivo. Spielberg mette in evidenza le potenzialità drammaturgiche e la dimensione drammatica connaturata alla luce, la sua ambivalenza, la sospensione tra fascino e paura. In “Incontri ravvicinati del terzo tipo” un ragazzino apre la porta del suo salotto e viene inondato da un fascio di luce arancione che proviene da un Ufo. Stanley Kubrick, In Barry Lyndon, ha fatto delle scelte molto forti rispetto al Settecento che voleva raccontare: non solo ha riprodotto la pittura dell’epoca, ma ha girato tutto il film con luce. Questa scelta apparentemente incomprensibile, in realtà diventa la vera e propria chiave per entrare nello stile dell’epoca, nel cosiddetto “secolo dei lumi”. Che il lume della ragione per Kubrick sia decisamente illusorio lo dimostra poi anche Shining, dove Jack Torrance, l’uomo della parola, del logos, perde il senno e viene sconfitto dal figlio Danny che possiede invece una facoltà extrasensoriale che consiste in una straordinaria capacità di vedere: lo shining, appunto, la luccicanza. In questo caso Kubrick rifiuta i canoni estetici di un genere che dovrebbe prediligere il buio, e gira un film sempre illuminato, in cui la luce artificiale all’interno dell’Overlook Hotel annulla i confini tra giorno e notte, proprio come nella mente dei suoi ospiti si sovrappongono passato e presente, mito e realtà.

Oltre a ciò che vuole esprimere nel cinema, la luce rappresenta l’elemento primo e indispensabile per produrre immagini.
Non c’è bisogno di particolari accadimenti biografici per scoprire la centralità della luce nel lavoro dei cineasti. Qualsiasi regista avvertito sa che il suo lavoro ha nella luce uno dei principali dati materiali e uno dei più alti valori simbolici. Per Steven Spielberg la luce corrisponde sempre al momento della verità di un incontro decisivo. Spielberg mette in evidenza le potenzialità drammaturgiche e la dimensione drammatica connaturata alla luce, la sua ambivalenza, la sospensione tra fascino e paura. In “Incontri ravvicinati del terzo tipo” un ragazzino apre la porta del suo salotto e viene inondato da un fascio di luce arancione che proviene da un Ufo. Stanley Kubrick, In Barry Lyndon, ha fatto delle scelte molto forti rispetto al Settecento che voleva raccontare: non solo ha riprodotto la pittura dell’epoca, ma ha girato tutto il film con luce. Questa scelta apparentemente incomprensibile, in realtà diventa la vera e propria chiave per entrare nello stile dell’epoca, nel cosiddetto “secolo dei lumi”. Che il lume della ragione per Kubrick sia decisamente illusorio lo dimostra poi anche Shining, dove Jack Torrance, l’uomo della parola, del logos, perde il senno e viene sconfitto dal figlio Danny che possiede invece una facoltà extrasensoriale che consiste in una straordinaria capacità di vedere: lo shining, appunto, la luccicanza. In questo caso Kubrick rifiuta i canoni estetici di un genere che dovrebbe prediligere il buio, e gira un film sempre illuminato, in cui la luce artificiale all’interno dell’Overlook Hotel annulla i confini tra giorno e notte, proprio come nella mente dei suoi ospiti si sovrappongono passato e presente, mito e realtà.
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